«L’impresario funebre? Più che un mestiere, una missione»
Senza pregiudizi che ogni mattina mi chiedo, è riuscire a soddisfare le famiglie nonostante stiano vivendo uno dei momenti più delicati della loro vita. È proprio onorando questo rigoroso principio umano, che dal 1990 porto avanti.
All’età di 15 anni ero molto giovane, facevo l’operaio, dopo un percorso di 5 anni di apprendistato, a un certo punto scelsi di dedicarmi a questo lavoro. Per me la spinta iniziale è stata la possibilità di sostenere davvero le persone in un momento delicato e frangibile delle loro vite. Tutti danno per scontato il loro dolore, io intuisco che il supporto non è mai a sufficienza. Mi adopero per colmare questo vuoto, per sostenere i parenti dei defunti avvicinandomi a loro e affrontando i primi giorni di lutto. E’ anzi tutto una missione, è un servizio sociale e lo è da quando ho iniziato.
Il contatto costante deve sempre esserci in questi momenti. Anche se ho più servizi in una giornata, cerco di organizzarmi per fare in modo da assistere, è una questione di fratellanza.
Il lato umano è quello che fa la differenza. Quando vengo contattato da una famiglia che ha subito un lutto, mi domando se sono riusciti a salutare il loro caro, sono persone prima che clienti. Penso sia questa la ragione per cui sono sensibile in questo momento.
L’umanità è quello che ci vuole in questo lavoro. Bisogna avere una certa formalità nei comportamenti, curare i dettagli, ma vi giuro che fanno la differenza. Questo servizio non può essere inespressivo, deve essere sempre misurato sulla famiglia, sul defunto, perché fondamentalmente è questione di rispetto dell’altro.
Sono un consulente? Dipende dalle persone, ci vuole sempre molta discrezione, perchè spesso sono i dolenti a chiedere un suggerimento. Non esistono risposte uguali per tutti, bisogna capire quali siano le loro esigenze prima di esprimere un consiglio.
Poi c’è la questione COVID-19 che purtroppo oggi fa parte della mia quotidianità. Ma anche per me preparare le salme delle persone decedute di Covid-19 è una sfida fuori dal comune, ma soprattutto, accompagnare le famiglie dei defunti è un’esperienza che segna profondamente.
In 30 anni di attività non ho mai vissuto una situazione così triste. È l’aspetto peggiore di tutto questo contesto mi fa venire la pelle d’oca.
Un pugno di parenti stretti che, a causa delle misure sanitarie di lotta contro la pandemia, non hanno più potuto vedere la persona amata dopo il ricovero in ospedale, né da viva né da morta, e che si ritrovano di fronte a una bara sigillata e disinfettata, dalla quale devono tenere le debite distanze, così come le devono tenere tra loro. Durante la breve cerimonia, alla quale possono partecipare poche persone, restano immobili, chiusi in una muta sofferenza. Poi, al termine di quel fugace momento di raccoglimento, se ne vanno, ognuno nella propria direzione, senza potersi abbracciare e senza nemmeno potersi scambiare una stretta di mano.
Sono scene che ti provocano una sensazione indescrivibile, che ti stravolgono interiormente. Quelle scene a cui ho assistito ripetutamente mi hanno scosso a tal punto, che mi sono persino chiesto se magari non fosse stato meglio per i familiari non fare alcuna cerimonia.
Le persone che si sono ritrovate in questa situazione, nonostante l’enorme sofferenza, hanno capito la necessità di rispettare le misure sanitarie: hanno dimostrato una grande capacità di adattamento e molto coraggio.
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